Diritto Commerciale

L’impresa familiare

L’istituto tra vita lavorativa e affettiva

Paolo 03 Dicembre 2025 Aggiornato il 16 Dicembre 2025
L’impresa familiare

L’impresa familiare nasce in uno spazio intermedio tra lavoro, affetti e responsabilità. È una forma di collaborazione che vive dentro un’impresa individuale, ma che si alimenta del contributo dei familiari più stretti. Non è una società, perché il titolare resta unico; e non è neppure una semplice forma di lavoro, perché attribuisce diritti che vanno oltre la retribuzione. È un modello che riconosce il valore concreto del lavoro prestato dai familiari e lo traduce in un sistema di tutele specifiche.

L’art. 230-bis c.c. si applica quando il titolare dell’impresa svolge l’attività con il contributo personale e continuativo del coniuge, dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo. Questo contributo deve essere reale e stabile: non basta una collaborazione saltuaria o simbolica. Solo il lavoro effettivamente prestato genera i diritti previsti dalla norma. È una scelta coerente con la finalità dell’istituto, che non intende cristallizzare rapporti affettivi, ma dare riconoscimento giuridico a una partecipazione lavorativa che, di fatto, sostiene l’impresa.

I familiari che partecipano all’impresa hanno diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili e agli incrementi dell’azienda e al coinvolgimento nelle decisioni straordinarie. La loro posizione non è quella di soci, ma neppure quella di meri collaboratori: i diritti vengono attribuiti in proporzione al lavoro prestato, come espressione concreta del contributo dato all’attività economica. La logica è quella di riconoscere che, pur restando unico il titolare, l’impresa cresce anche grazie al lavoro dei familiari.

La gestione rispecchia questo equilibrio. Gli atti ordinari restano nella disponibilità esclusiva del titolare, che mantiene la guida dell’impresa. Per gli atti straordinari, invece, è richiesto il consenso dei familiari partecipanti, con un peso proporzionato all’entità del loro contributo. Questo coinvolgimento non trasforma i familiari in amministratori, ma riconosce che certe scelte – quelle che incidono in modo significativo sull’azienda – non possono prescindere da chi contribuisce stabilmente alla sua attività.

Sul piano patrimoniale, i familiari partecipano agli utili, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda, ma non acquistano un’autonomia patrimoniale separata. Non diventano soci e non si forma un patrimonio comune distinto da quello del titolare. La loro posizione resta collegata al rapporto di collaborazione e non alla titolarità del rischio d’impresa.

Per quanto riguarda la responsabilità, la regola è netta: verso i terzi risponde solo l’imprenditore. I familiari non rispondono delle obbligazioni dell’impresa e non partecipano al rischio economico. Il loro contributo è lavorativo, non finanziario. Questa distinzione segna una distanza chiara dalle forme societarie: qui il rischio resta concentrato sul titolare.

Quando il rapporto si scioglie, i familiari hanno diritto alla liquidazione della quota maturata in proporzione al lavoro prestato. Il recesso è possibile quando viene meno la collaborazione o quando cessano i presupposti familiari che giustificano l’applicazione della norma. Anche in questa fase, l’istituto rimane fedele alla sua logica: riconoscere il contributo effettivo del familiare senza attribuirgli lo status di socio.

La disciplina dell’impresa familiare è inderogabile in peius: le parti non possono limitare i diritti dei familiari rispetto a quanto previsto dalla legge. È una tutela che deriva dalla natura personale del rapporto e dalla necessità di evitare che la vicinanza familiare diventi motivo per ridurre garanzie che, in un rapporto di lavoro ordinario, sarebbero considerate irrinunciabili.
L’impresa familiare non va confusa con altri istituti. Non coincide con l’impresa coniugale, che ha regole proprie; non si sovrappone alla comunione legale, che riguarda il regime patrimoniale della famiglia; e non è una società di fatto, salvo che i familiari partecipino non solo ai guadagni, ma anche alle perdite. In quel caso, la collaborazione travalica i confini dell’art. 230-bis e assume i tratti tipici dell’attività societaria.

Rispetto ad altre figure, l’impresa familiare trova una sua collocazione distinta. Non c’è eterodirezione piena come nel lavoro subordinato; non c’è autonomia pura come nel lavoro indipendente; non c’è il vincolo sociale tipico della società. È una collaborazione familiare che si innesta in un’impresa individuale, riconoscendo diritti proporzionati al contributo lavorativo. Ed è proprio in questa posizione intermedia che l’istituto trova la sua funzione, offrendo un equilibrio tra lavoro, famiglia e responsabilità economica.

Bibliografia

G.F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto dell’impresa, UTET, Torino